“Non ci fu abbandono di incapace aggravato dalla morte”: depositate le motivazioni, soddisfazione dei legali per l’assoluzione degli imputati foto

Gli avvocati Olmi e Caioli: "Confidiamo che la procura generale non intenti un'impugnazione"

Sono state da poco depositate (fuori termine) le motivazioni della sentenza da parte della Corte di Assise di Appello di Cagliari nel processo penale contro uno psicoterapeuta e un medico di base, accusati del reato di abbandono di persona incapace aggravato dall’evento della morte. 

Lo rendono noto i legali fiorentini Antonio Olmi e Monica Caioli, che sono riusciti a far assolvere con formula piena un noto psicanalista sardo.

La storia

Luciana Serri, brillante medico psichiatra pluri-specializzata di Cagliari veniva trovata senza vita nella sua abitazione nel gennaio del 2015. Viene reperito in casa un farmaco, il Talofen, un potente sonnifero che può anche causarne la morte.  Si parla nell’immediatezza di suicidio, vista la patologia da cui era afflitta la ragazza per cui era in cura da tempo da una psichiatra: disturbo bipolare di tipo 1.

I genitori non sono convinti delle ragioni che possano aver indotto la figlia a togliersi la vita e dopo mesi (nel luglio del 2016) depositano una denuncia-querela nei confronti di un noto psicologo di Cagliari, Giovanni Deriu, e del medico curante della ragazza, Raffaella Vincis, responsabili, a loro dire, di aver indotto nella ragazza la convinzione di non aver alcun disturbo e di poter fronteggiare i propri malesseri con la sola psicoterapia, senza far alcun ricorso ai farmaci, stando altresì lontano dai patogeni genitori.

Il reato viene inizialmente rubricato come “istigazione al suicidio” e, successivamente, come “omicidio colposo”, ma la procura della Repubblica di Cagliari richiede l’archiviazione per ben due volte, non ravvisando estremi di reato nelle condotte dei professionisti coinvolti.

La procura generale presso la Corte di Appello cagliaritana avoca a sé il procedimento penale e contesta stavolta ai due indagati il reato di abbandono di persona incapace aggravato dall’evento della morte e al medico di base si contesta anche il reato di omissione di atti d’ufficio.

Si celebra il faticoso processo di primo grado che si conclude con la condanna degli imputati per il solo reato di abbandono di persona incapace, mentre verranno prosciolti entrambi dalla circostanza aggravante della morte come conseguenza dell’abbandono e (solo il medico di base) dal reato di omissione di atti d’ufficio, viene accordato tuttavia un lauto risarcimento del danno di 100mila euro da versare ai genitori della defunta figlia.

Vengono interposti gli appelli da parte della procura generale per il mancato riconoscimento della circostanza aggravante e contro il proscioglimento del medico in ordine al reato di omissione di atti d’ufficio, oltre che da parte delle difese degli imputati.

Il 30 giugno dello scorso anno inizia il procedimento di appello che si conclude a ottobre con un’assoluzione con formula piena degli imputati in relazione a tutte le fattispecie di reato contestate.

Si legge in sentenza: “L’ipotesi suicidiaria prospettata dal primo giudice quale ragione del decesso di Luciana Serri ha avuto un effetto condizionante sulla valutazione delle condotte degli imputati. (…) Le risultanze istruttorie non accreditano affatto la conclusione che il decesso di Luciana Serri sia avvenuto come conseguenza di un gesto anticonservativo concretizzatosi nella volontaria assunzione eccessiva del farmaco Talofen (…).”

Fu, infatti, reperito un unico flacone del potente farmaco (inizialmente la polizia giudiziaria aveva erroneamente verbalizzato il rintraccio di due flaconi) di cui vi è prova che la defunta stesse assumendo da giorni, ed un bicchiere d’acqua ancora pieno, indicativo della mancata assunzione del farmaco li, eventualmente versato.

Il consulente chimico, sentito in dibattimento, su impulso della difesa Vincis, ha escluso che la dose massima eventualmente assunta dalla Serri fosse in grado di cagionarle la morte: dunque, le ragioni della morte della Serri sono state ritenute diverse dal suicidio.

Prosegue ancora la Corte di Assise di Appello: “E’ opinione di questa Corte che le risultanze istruttorie non consentano affatto di ritenere accertato che nel periodo di riferimento temporale del capo di imputazione gli imputati abbiano tenuto la condotta stigmatizzata”.

Difettano, a parere dei giudici di secondo grado, tutti gli elementi costitutivi del reato di abbandono di persona incapace, in primis, l’incapacità di provvedere a se stessa.

La Corte sostanzialmente ritiene che, ancorché afflitta da un disturbo bipolare, la Serri non fosse da considerarsi nel periodo di riferimento, incapace di provvedere a se stessa nel senso indicato dalla norma contestata.

La donna per anni ha condotto una vita assolutamente “normale” che le ha consentito di ottenere persino due specializzazioni (medicina generale e psichiatria).  E’ emerso in modo incontrovertibile l’ostinato, ferreo e scientificamente consapevole, rifiuto da parte della Serri di una terapia a base di litio, infatti interrotta più volte. 

Nel 2006 ha introdotto anche la psicoterapia con il dottor Deriu, psicologo iscritto alla Società Psicanalitica italiana.

Sono le stesse parole della psichiatra di riferimento della defunta a confortare sull’assenza di una incapacità della paziente nel senso sopra citato: “chi è affetto da questo disturbo non deve essere solo per questo ritenuto incapace”.

Dalle risultanze istruttorie – a parere della Corte di secondo grado – emerge un quadro di capacità della Serri, in grado di comprendere la differenza tra ricovero coatto e volontario, del significato di sottoporsi alla cura a base di litio e spontaneamente sospenderla: convincimenti che non consentono di affermare che Luciana Serri fosse persona incapace di provvedere a se stessa.

Dalle parole del giudice di secondo grado emerge chiaro l’atteggiamento negazionista tipico dei pazienti affetti da disturbi bipolare che determinava nella Serri un riferito mendace unicamente finalizzato a negare la propria patologia, in primis, a se stessa. In particolare, con riferimento alla dottoressa Vincis non può dirsi neanche accertato che la stessa, consapevolmente e volontariamente, abbia omesso di attivarsi per indurre Luciana Serri ad assumere la terapia farmacologica e che l’abbia addirittura incoraggiata persino a non curarsi. In relazione a Deriu la Corte di secondo grado afferma che la tesi ricostruttiva del primo giudice non possa essere condivisa, sia perchè fondata su mere affermazioni della Serri (che come visto aveva interesse a non dire il vero per proteggersi) attribuite al Deriu, sia perchè è davvero poco credibile che, in ragione di pregiudizi professionali, egli abbia disconosciuto l’oggettività di una diagnosi.

I due professionisti, venuti a conoscenza del grave disagio della paziente, confidarono sul monitoraggio della Serri da parte delle persone competenti in materia (gli psichiatri).

I difensori degli imputati sono soddisfatti della decisione della Corte di Assise di Appello: “Le motivazioni della sentenza  – affermano Olmi e Caioli – dimostrano un equilibrato approccio ad una vicenda molto delicata e complessa. La morte di una giovane donna addolora tutti, ma altro è la naturale empatia verso il dolore dei familiari per la  prematura scomparsa  della amata figlia, altro è attribuirne la responsabilità penale agli imputati in modo totalmente destituito di fondamento, come si è dimostrato in modo trasparente e definitivo”.

“Confidiamo – concludono i difensori – stante la persuasività ed esaustività delle motivazioni della sentenza intervenuta, – nell’abbandono da parte della procura generale di qualsiasi ulteriore intento di impugnazione”

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