Il “mostro” è in carcere ma “io cammino per strada guardandomi intorno”. Alle donne vittime di violenza dice: “Scappa subito perché in ballo c’è la tua vita, anche se sopravvivi”

La storia che arriva dal comprensorio del Cuoio va dritta al cuore e ci insegna che può succedere, anche qui

“L’ho mandato in carcere. Mi sono data la colpa, sapevo che era colpa mia. Io che, la prima volta che sono andata a trovarlo in carcere, ho pensato che da lì lo avrei voluto tirare fuori e che lì non lo avrei più voluto vedere perché me lo ha raccontato come si sta tra quelle mura. Invece ce l’ho mandato io”. In carcere, quest’uomo c’è e neppure per la prima volta. Ai compagni di cella del Don Bosco di Pisa racconta, un po’ spaccone, “di essere dentro” per spaccio, ma in realtà c’è per maltrattamenti in famiglia. Per le botte, le minacce, gli insulti pubblici e privati riservati alla compagna.

Una compagna che prova finalmente a essere ex, ma che si dice disponibile ad “aiutarlo da lontano, se inizia un percorso in comunità” e chiama l’avvocato quasi ogni giorno “perché non so quando uscirà. Volevano dargli i domiciliari ma per fortuna non è riuscito a ottenerli, visto che è residente a casa mia. Sto cercando di togliergli la residenza ma non è così facile. Non so se prima o poi ce la farà ad avere i domiciliari. E comunque un giorno uscirà dal carcere. So che non sta avendo permessi perché si comporta male anche là dentro, comunque io mi guardo di continuo attorno quando cammino per strada. Non sto tranquilla, ho paura. Di lui e anche del padre. Anche lui è un violento ed è libero. Il mio ex dovrebbe stare in una comunità di recupero, lontano dal padre, perché insieme si peggiorano. Qui siamo pieni di telecamere, chiudiamo tutto a chiave, usiamo tutte le cautele ma la mia vita e mie luoghi sono questi e lui li conosce bene”. Nel giorno contro la violenza sulle donne, la storia che arriva dal comprensorio del Cuoio va dritta al cuore.

Perché anche chi alla violenza sopravvive, finché non riesce a tornare a vivere, muore ogni giorno un po’: nell’incertezza del futuro, nella paura di relazionarsi con gli altri e uscire di casa, nell’impotenza davanti a quell’uomo e anche nel sentirsi sola (senza uno Stato in appoggio davvero) a combattere una battaglia per la vita. Noi, la protagonista di questa storia, la vogliamo chiamare Vittoria, perché è quello che le auguriamo e auguriamo a tutte le donne come lei.

Con l’aiuto dei genitori, ha cresciuto una figlia da sola. Poi ha accudito la madre malata fino alla morte, si prende cura del padre che vive con lei e ora, con tutte le forze, cerca di sconfiggere un male tremendo, che le ha richiesto un autotrapianto e che la sottopone ancora a chemioterapia. “I medici non hanno escluso che la mia malattia sia dipesa anche dalle botte e dai dispiaceri. Sono finita in coma e da lì si è scoperto tutto”.

Essere donna in questo tempo di nuove consapevolezze richiede purtroppo una forza disumana: vivi in una società maschilista sotto ogni aspetto, concentrata a cambiare le vocali ma cieca sui diritti e le opportunità. Che ha bisogno di giornate della memoria per qualsiasi cosa, così da dimenticarsene gli altri giorni. Non vuoi viverci schiacciata sul “tuo ruolo” ma anche se lavori il doppio di un maschio non hai che la metà. Se in più ci sono i problemi di salute, l’energia che serve è immensa. Ma la vera forza, quella che abbatte i muri di vergogna, i recinti di pregiudizio e gli sguardi della gente, ci vuole per raccontare e denunciare. Per scegliere. Perché poi, alla fine, di questo si tratta. Di scegliere di andarsene, anche se quella storia e quell’uomo li avevi scelti tu.

“Non mi fanno uscire dal carcere per colpa tua, mi diceva mentre ero in ospedale. A quel punto, ho staccato le chiamate e ho deciso di pensare a guarire per mia figlia e mio padre. Ora, però, mi serve uno Stato che me lo tenga fuori dai piedi”. Non se ne rende neppure conto mentre lo racconta, ma il suo “l’ho mandato in carcere” è figlio di quel “Non mi fanno uscire dal carcere per colpa tua” che ripete più volte. Il “lavaggio del cervello” è la cicatrice che si vede di meno ma che sarà più difficile da guarire.

Adesso lo so: mi sono fatta un regalo. Non per lui, però, ma perché mi sono ripresa davvero la mia vita, la mia famiglia, la mia salute. Ora mi serve che qualcuno se ne occupi, per permettermi di terminare il mio percorso e poi di ricominciare a vivere”. Ad aiutare Vittoria, intanto, ci sono gli psicologi e un gruppo di sostegno, perché lei è una delle donne seguite dal Codice Rosa. Lui, invece, “A quanto ne so è stato seguito dal Sert per la dipendenza da alcol e forse da droga, per il resto niente. Non credo abbia mai fatto un percorso specifico dal punto di vista psicologico o comportamentale. Ma io so quello che mi diceva lui, quindi sopra ci stanno un mare di bugie”.

E’ la bugia la cifra del violento, che si costruisce e ti costruisce intorno una realtà diversa, in cui tu non esisti senza lui, lui lo fa per te e tu non puoi ribellarti, perché invece dovresti essergli grata.

“Ci siamo conosciuti un giorno del 2018, davanti a un negozio. Poi, dopo qualche mese, mi ha chiesto di venire a vivere a casa mia. Dormiva sul divano in salotto e io in camera mia. Gli avevo trovato un buon lavoro anche se lo mantenevo io perché lui mandava tutto lo stipendio al padre. E’ stato bello all’inizio”.

La fine, invece, qualche tempo fa: “Ci siamo incontrati sul treno. Ha iniziato a insultarmi e minacciarmi finché qualcuno non ha avvisato la Polizia. Allora lo hanno arrestato. Ma lui era già stato in carcere per maltrattamenti alla ex compagna, con la quale ha figli minori di 14 anni. E per quanto ne so, anche un’altra ragazza lo ha denunciato per lo stesso motivo”.

Dopo la prima volta in carcere, dove è rimasto tra il 2020 e quest’anno, i domiciliari li ha avuti proprio a casa di Vittoria. “E’ stato il periodo più bello – ricorda lei -. Nelle lettere dal carcere è un’altra persona: giura amore eterno, mi dice che siamo anime unite e quando esce dal carcere sono felice di accoglierlo. Mamma stava male e lui mi ha aiutata tanto in quel periodo, era una bella spalla però poi alla fine è tornato il solito diavolo. Io penso che abbia due personalità: quando era fuori dal carcere mi mandava la foto di una pistola la mattina con scritto che era per me e poi la sera mi scriveva che voleva tornare a casa perché il suo posto è con me”.

Non è facile convivere sullo stesso territorio, anche perché è impossibile capire quanto tempo ci voglia per passare dalle parole ai fatti. “Sono preoccupata per quando esce perché sa come togliersi il braccialetto elettronico e come minacciare: aprì persino un profilo social apposta. Lo so perché io ero lì e l’ho visto. Quando era ai domiciliari da me, ho scoperto che a volte usciva. Una volta ho chiamato i carabinieri per avvertirli e allora lo hanno arrestato per evasione”.

Probabilmente, se lo avessero detto a lei non avrebbe ascoltato. Ma un tentativo Vittoria vuole farlo e raccomandare a tutte le donne di uscire subito dalle storie malate, perché ti mangiano l’anima da dentro. L’ideale è scappare subito, al primo segnale, perché un amore violento non è un amore malato, è solo un non amore. Ma siccome c’è passata, Vittoria prova a essere più (tristemente) realistica.

“A volte pensiamo che, nella lite, uno schiaffo ci può stare, che si dà quello che si prende. Oppure che davvero potrebbe non farlo più e quindi c’è margine per perdonare. La seconda volta, però, deve essere l’ultima: denunciate, scappate, mollate tutto, voglio dire a tutte le donne. Se lo ha fatto di nuovo, continuerà a farlo di nuovo e non ci saranno più momenti belli o sereni. Non importa cosa c’è stato, se ci sono i figli, se manca il reddito o ti trovi sola: scappa. Scappa subito perché in ballo c’è la tua vita. Che può finire anche se sopravvivi al mostro, perché guarire la paura e la soggezione è più difficile che guarire le botte”.

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