Caso Ragusa, la corte europea dei diritti dell’uomo respinge il ricorso di Antonio Logli

L'uomo, in carcere con condanna definitiva, ha cambiato legale. Da capire se, nel caso emergano nuovi elementi, possa intraprendere la via della revisione del processo

È stato respinto dalla corte europea dei diritti dell’uomo il ricorso presentato da Antonio Logli, condannato in via definitiva dalla Cassazione a 20 anni di carcere per la morte della moglie Roberta Ragusa.

Logli, nel ricorso, aveva sostenuto che dal primo grado alla corte suprema,  fossero stati ignorati i testimoni a suo favore, impedendogli, di fatto, il diritto ad una giusta difesa.

Intanto l’uomo ha di nuovo cambiato legale: la sua difesa passa dall’avvocato Ciro Simone Giordano del foro di Milano all’avvocatessa Laura Razetto del foro di Genova.

Da capire se, nel caso emergano nuovi elementi, Antonio Logli possa intraprendere la via della revisione del processo.

La Cassazione, nel luglio 2019, si era pronunciando mettendo fine alla vicenda dell’imprenditrice pisana, sparita nel nulla dalla sua casa di Gello la notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012. Dopo due sentenze di primo e secondo grado, la suprema corte, dopo oltre 6 ore di camera di consiglio aveva confermato la condanna a 20 anni per Antonio Logli.

Il corpo della donna fu cercato, oltre che nel pisano, anche nel lago di Massaciuccoli, sul versante di Torre del Lago e quello di Massarosa. Nonostante il freddo polare, era la fine del gennaio 2013, i sommozzatori dei carabinieri e dei vigili del fuoco si erano immersi nelle acque gelide e melmose del Massaciuccoli per perlustrare i fondali e le sponde nell’ambito della maxi battuta, mentre erano proseguite anche le ricerche a terra con l’impiego di militari dell’esercito e dei carabinieri del Tuscania, soprattutto nelle aree rurali, nelle grotte e nelle cavità carsiche della zona. Sul posto, a dirigere le operazioni, erano presenti l’allora tenente colonnello Gianni Fedeli – oggi comandante provinciale dell’Arma di Pistoia – e l’allora maggiore Stefano Bove, assieme a volontari, protezione civile, cacciatori e pescatori, ed esperti del posto, dopo la segnalazione arrivata ai carabinieri di Pisa da parte di un pescatore che aveva riferito di aver visto affiorare dalle acque, sulla parte occidentale, una testa e gli investigatori vollero fugare ogni dubbio, non lasciando niente di intentato. L’uomo, che si trovava nel versante occidentale dello specchio d’acqua, aveva visto affiorare qualcosa  che somigliava a una testa con ancora i capelli attaccati prima di scomparire alla vista per immergersi nuovamente in profondità. Le ricerche effettuate dai sommozzatori dei carabinieri e dei vigili del fuoco, che erano partite proprio dal punto dove sarebbe avvenuto il presunto avvistamento, non avevano però dato esito, anche se gli stessi sub avevano ammesso che si trattava di ricerche molto complesse a causa della scarsa visibilità che c’è sott’acqua e del fondale melmoso del lago. Quelle sul lago furono ricerche tattili: si posero sul fondo sabbioso delle cime di riferimento, ossia si stesero delle funi, orizzontali, a traversino o circolari, e gli operatori, seguendo le stesse, tastarono con le mani, palmo palmo, di metro in metro. Una tecnica questa usata quando la visibilità dei fondali è pari a zero, come nel caso del Massaciuccoli le cui acque sono anche fitte di alghe. La base logistica era stata allestita al porticciolo del Circolo velico, a fianco del teatro Puccini, da dove erano partiti i gommoni, mentre dal cielo l’elicottero dei carabinieri perlustrava tutta la zona e i cinofili battevano palmo a palmo la zona delle torbiere. Ritrovare il cadavere di Roberta Ragusa, cosa mai successa, avrebbe significato stabilire le cause della morte. Ma il lago è vasto e le ricerche durerarono solo due giorni. Ammesso e non concesso che la donna fosse lì, e che il corpo fosse ancora intatto. I pesci, infatti, potrebbero averlo divorato.

La vicenda risale alla notte tra il 12 e il 13 gennaio del 2012, quando Roberta Ragusa sparì in pigiama e pantofole.  Le indagini si concentrarono quasi subito sul marito, il quale, invece, ha sempre sostenuto la tesi dell’allontanamento volontario della moglie. Iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Pisa il 2 marzo 2012, dopo circa due mesi dalla la scomparsa della moglie, il pm della procura di Pisa, dottor Aldo Mantovani, gli contestò il reato di omicidio volontario e di occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti, infatti, Roberta Ragusa fu uccisa al culmine di un litigio quando, ascoltando una telefonata del marito in soffitta, capì che Logli aveva un’amante, Sara Calzolaio, tata dei figli e segretaria alla attività di famiglia, di 20 anni più giovane. Da quanto ricostruito dall’accusa il marito, dopo che Roberta Ragusa era uscita da casa, l’aveva raggiunta in una via vicina, l’aveva uccisa e ne aveva occultato il cadavere, per poi, il giorno successivo, denunciarne la scomparsa. Nel 2015 il gup aveva prosciolto Logli, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza e ordinato un nuovo processo.

Nel 2016 la prima condanna, in primo grado, a 20 anni. Poi l’appello a Firenze, con la conferma, e la Cassazione. Per Logli, con la condanna definitiva, si aprirono le porte del carcere.

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